Perché soffriamo ancora di povertà educativa

Intervista a Marco Rossi Doria

La mancanza di risorse e la povertà di competenze affliggono ancora troppi bambini e adolescenti in Italia. Sono minori non protetti e dal futuro messo a rischio dalla povertà educativa, un fenomeno dai tanti contorni, la cui complessità non può fermare la politica del contrasto.

Ne abbiamo parlato con Marco Rossi Doria, esperto di politiche educative e sociali, maestro di strada e insegnante di frontiera, attualmente vicepresidente di Con i Bambini, l’impresa sociale che gestisce i programmi del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.

Perchè soffriamo ancora di povertà educativa. Intervista a Marco Rossi Doria

Se si sommano i minori in povertà assoluta e relativa, sono circa 3 milioni e 600 mila, un terzo del totale, i minori poveri in Italia, un Paese ricco e che fa pochi figli.

Non è una piccola percentuale: parliamo del 33-34% dei minori, in questa condizione NON solo a causa del reddito. Dobbiamo infatti considerare tutti gli altri elementi che influiscono sulla vita di un bambino.

In una lunga intervista a INVALSIopen, Marco Rossi Doria, tra i più noti esperti di povertà educativa minorile, parla di un fenomeno che ha imparato a conoscere molto bene, e non solo analizzando cifre e grafici: la carenza di competenze e di opportunità formative in alcuni contesti.

La sua è un’esperienza basata sui fatti e cresciuta sul campo, accumulata in tanti anni di lavoro come maestro di strada e insegnante dei bambini in quartieri a forte rischio sociale.

Ha condotto progetti di avvio alla formazione professionale, ha lavorato per rafforzare le comunità educanti locali e per offrire opportunità ai poveri e ai poveri di conoscenze e competenze.

Dal 1975, l’anno in cui è diventato maestro elementare, ha insegnato in alcuni quartieri ai margini a Roma, negli Stati Uniti, in Francia, al seguito di Ong in Kenya. È stato maestro di strada nei Quartieri Spagnoli di Napoli.

Per il suo impegno contro i divari, ha ricevuto il Premio Unicef Italia per l’infanzia e la Medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per la cultura, l’educazione e la scuola.

Parallelamente ha assunto in più occasioni responsabilità istituzionali nel campo delle politiche educative e sociali, sia in Italia – anche con il ruolo di sottosegretario all’Istruzione – che in Europa e per l’ONU.

Più di recente, a giugno 2020, gli è stato affidato l’incarico di vicepresidente di Con i Bambini, società senza scopo di lucro che ha il compito di dare attuazione ai programmi del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.

Di mestiere faccio il maestro è il libro in cui ha raccontato la sua esperienza ventennale di insegnante di frontiera, con un titolo che riassume un curriculum ispirato a una vera missione educativa.

È inoltre autore di Con l’altro davanti e coautore di pubblicazioni e ricerche sui temi dell’istruzione e della povertà educativa come: La scuola deve cambiare, Parole chiare – i luoghi della memoria in Italia, La scuola è mondo e Reti contro la dispersione scolastica.

Dottor Rossi Doria, la battaglia contro la povertà educativa è una priorità per la Scuola. È chiaro che non si tratta solo di abbandono scolastico, ma anche di povertà di competenze. Lo rivelano i dati sulla dispersione scolastica implicita, confermati anche dagli studi e dalle ricerche dell’INVALSI, che soprattutto nei contesti più poveri e al Sud assumono la forma di un fenomeno macroscopico. Quale legame si crea tra divari educativi e mancato sviluppo dei territori?

Per parlare di povertà educativa dobbiamo cercare di fare un’operazione di semplificazione che ci aiuti a indagare la complessità del fenomeno.

Dobbiamo cioè distinguere diverse componenti della povertà educativa e solo poi ricostruire un quadro d’insieme.

Un primo fattore da considerare è la povertà di reddito.

Secondo l’ISTAT, in Italia abbiamo attualmente 1 milione e 137 mila minori che vivono in povertà assoluta su un totale di 9 milioni e 800 mila. E secondo Save the Children dopo il COVID-19 sarebbero in aumento.

A questi dobbiamo aggiungere, sempre secondo l’ISTAT, 2 milioni e 300 mila minori che sono in povertà relativa, alcuni dei quali stanno cadendo in povertà assoluta.

Più bambini ci sono in queste famiglie, più aumenta la povertà, e in Italia i poveri fanno più figli dei ricchi.

Quindi il primo elemento importante per i bambini è il reddito dei genitori e la certezza del reddito, mensile e annuale.

La povertà si riverbera sull’educazione dei bambini in aspetti pratici: non poter acquistare quaderni e libri, vivere in una casa troppo piccola e non avere quindi uno spazio dedicato allo studio, non avere un device per svolgere la didattica a distanza.

Il secondo elemento da tenere presente è l’ambiente circostante.

Ci sono cioè altri fattori oltre al reddito da monitorare nel contesto della povertà educativa minorile.

Circa 10 anni fa, un comitato di esperti al quale ho partecipato ha creato una metodologia in grado di individuare questi fattori e costruire un Indice della Povertà Educativa (IPE) che tenesse conto ad esempio di:

  • La presenza territoriale dei nidi per cui i bambini possano stare in un ambiente di socializzazione protetta e competente
  • La possibilità di usufruire di un tempo scuola pieno o prolungato
  • La presenza di una mensa scolastica
  • L’esistenza di aule collegate a internet
  • La presenza di opportunità culturali e sportive

Nel misurare la povertà educativa si è tenuto presente che l’apprendimento non avviene solo a Scuola, ma dappertutto.

Si apprende per strada, in una biblioteca di quartiere, perché vai a teatro e al cinema, perché suoni uno strumento musicale, perché frequenti un luogo di aggregazione giovanile, ecc.

Quartieri infrastrutturati da occasioni di apprendimento e ben organizzati cambiano la vita quanto una Scuola buona.

I minori poveri nella maggior parte dei casi vivono, invece, in quartieri dove non esistono questi elementi infrastrutturali.

Ci sono poi fattori ulteriori, diversificati per territorio.

  • Vivere in una zona interna spopolata che fa sì che i tuoi coetanei siano a molti km di distanza
  • Appartenere a quartieri disperati, come le periferie del Mezzogiorno, dove spesso domina la cultura della criminalità organizzata
  • Risiedere in un quartiere degradato, non curato, senza verde e parchi giochi, dove i palazzi non hanno manutenzione e non ci sono servizi

La condizione di povertà educativa dipende anche dal vivere in luoghi dove sono venute a mancare le occasioni di ritualità comune, tradizioni di carattere comunitario che trasmettono un senso di identità e di appartenenza, e questo elemento unisce i bambini ricchi e i poveri.

Può, inoltre, esistere una difficoltà dei genitori a rispondere adeguatamente a difficoltà, fragilità personali, problemi familiari o questioni emotive, che aggravano la condizione di povertà educativa nel caso in cui si sommino a tutto ciò di cui abbiamo parlato.

La Scuola non può compensare tutto questo da sola.

Ha un mandato istituzionale chiaramente definito che consiste nel garantire a tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza, l’apprendimento delle competenze codificate dalle Indicazioni Nazionali per il curricolo dai 3 ai 14 anni e poi, successivamente, per la scuola superiore e per l’istruzione e formazione professionale.

Quindi l’indipendenza della Scuola dalle condizioni di partenza degli alunni è fondamentale perché consente in astratto l’emancipazione dei bambini.

Il problema è che questo non avviene: la scuola non produce più sufficiente mobilità sociale. Lo ha fatto in passato ma poi si è fermata.

Quali sono le cause che ostacolano il ruolo della Scuola nell’emancipazione sociale dei minori?

Da una parte ci sono investimenti compensativi insufficienti per implementare il principio di discriminazione positiva sancito dalla nostra Costituzione, ovvero dare di più a chi parte con meno.

Dobbiamo considerare ad esempio che la quota di PIL investita in istruzione e formazione è ferma al 3,8% in Italia, contro una media dei nostri partner europei del 4,6%. Si tratta di una differenza di miliardi di euro.

D’altra parte, anche l’economia riconosce oggi in misura maggiore come per rilanciare il Paese sia molto importante l’infrastrutturazione sociale e educativa.

Questo è il motivo per cui esiste il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile gestito dall’impresa sociale Con i Bambini, di cui ho da poco assunto la vicepresidenza, o anche per cui, da più parti, si richiede che una percentuale del Recovery Fund sia destinato alla povertà educativa.

Un secondo problema è la ricaduta degli investimenti, cioè l’efficacia che essi hanno sul sistema educativo.

Dobbiamo fare in modo che la Scuola sia pronta a far funzionare le risorse per rispondere alla richiesta di tempo, dedizione e flessibilità dei minori in difficoltà.

Non necessariamente le risorse devono essere dirette solo sulle scuole.

Penso alle comunità educanti in senso più ampio, competenti e stabili in quel certo territorio, che si dedicano, sia a scuola che fuori, alla rimarginazione delle disuguaglianze.

In questo modo si può implementare, attraverso fondi regolari costanti nel tempo dati al Terzo settore e non solo alle scuole, quello che io chiamo lo sviluppo educativo locale.

Come si costituisce una comunità educante e quali caratteristiche deve assumere per essere efficace?

La comunità educante per essere tale in primo luogo deve essere radicata in un territorio circoscritto, dove poter fomentare quegli elementi di appartenenza identitaria e spirito di comunità, legandoli all’apprendimento formalizzato, a quello informale e non formale ed alla cura dei beni comuni.

Ad esempio, può coinvolgere un rione di una grande periferia o una valle di una comunità montana.

Faccio un esempio: nei quartieri di tutta Italia i ragazzini hanno adottato un monumento o un bene di valore culturale grazie al movimento Adotta un monumento.

Queste sono occasioni per creare comunità educanti attorno a progetti che abbracciano una grande quantità di discipline. L’affetto per quei luoghi di tante persone e l’impegno della Scuola ad agire in maniera diversa diventano nutrimento per le comunità educanti.

Si sviluppano cioè delle precondizioni per l’apprendimento. Parliamo di service learning, un volano di sviluppo della comunità educante che porta a ricadute in termini di competenze.

In secondo luogo, la comunità educante deve essere un’alleanza tripartita e formarsi quindi su 3 grandi componenti:

  • la Scuola
  • l’amministrazione locale, come un comune o un consorzio di comuni
  • l’associazionismo che ricade nel Terzo Settore o nel più ampio civismo sociale e educativo del territorio

Anche la famiglia è importante ed è parte della comunità educante. Ma attenzione: la famiglia fa parte della comunità educante in quanto nucleo di cittadini che ha competenze educative e solo poi in quanto genitori.

In questa funzione guarda cioè ai compiti educativi di quella comunità, non rimanendo concentrato solo sui propri figli.

Ha menzionato, parlando di periferie, la criminalità organizzata. Torniamo per un momento sul tema della legalità nei contesti svantaggiati. Qual è stata la sua esperienza di maestro di strada in realtà di frontiera dove la criminalità contribuisce alla carenza dei territori?

Ho vissuto negli ultimi 27 anni della mia vita in un quartiere in cui l’illegalità è molto presente: i Quartieri Spagnoli di Napoli.

La prima attenzione è saper leggere il territorio nella sua complessità: esiste l’illegalità e il crimine, ma esistono molte forze sulle quali poter contare.

La seconda attenzione da avere, in contesti di questo tipo, è distinguere l’illegalità dalla criminalità. Sono parenti ma non sono la stessa cosa.

C’è differenza tra vendere i gelati a nero, o pulire le scale in un palazzo per sbarcare il lunario, e la criminalità. In questo caso, per il bene della propria famiglia si fa una cosa illegale, ma non un atto criminale.

Inoltre, è necessario evitare gli stereotipi e il pregiudizio per cui se sei povero e se provieni da un certo quartiere necessariamente dovrai delinquere.

Esiste per fortuna la soggettività personale, la scelta.

C’è sempre la possibilità di scegliere il bene e non c’è un automatismo per cui se nasci in quel quartiere, allora…

La Scuola ha un ruolo nel supportare questa scelta?

La Scuola non solo è fondamentale, ma è il più importante presidio della Repubblica in territori nei quali lo Stato non c’è, se non appunto per la Scuola e la stazione dei Carabinieri.

La Scuola è un luogo in cui puoi stare con gli altri secondo regole uguali per tutti anche se siamo diversi: è importante già solo per esistere e per avere una sua ritualità quotidiana.

È importante, inoltre, perché dà accesso alla cultura, alla storia, alle scienze, al sapere dell’umanità e quindi permette di guardare attraverso un orizzonte ben più largo di quello che è la tua esperienza diretta, con strumenti universali di lettura della realtà.

A Scuola impari, puoi diventare altro da quello che pensavi di dover essere e, soprattutto, impari ad imparare.

Dalla legalità arriviamo a parlare di educazione alla cittadinanza. Nel senso che la giustizia in ogni studente dovrebbe potersi esprimere anche sotto forma di tutela della cittadinanza – del bene pubblico, dell’ambiente e della salute, del patrimonio culturale. Cosa dovrebbe fare la Scuola su questo capitolo?

La Scuola già fa moltissimo e ha la sua importanza anche in questo caso, ma ha bisogno di alcuni ingredienti.

Una Scuola troppo formale, dove non ci sono esperienze significative può essere meno efficace.

Faccio esempi di cose che ho visto: scuole in cui si fa una festa di compleanno, si organizzano eventi a Natale e Pasqua, si permette ai genitori di entrare il pomeriggio per svolgere delle attività creano maggiore senso di cittadinanza.

O scuole dove è importante che i lavori dei bambini vengano mostrati ai genitori, dove si fanno attività un po’ straordinarie: si vedono film, c’è un’orchestra o un coro, esiste una squadra sportiva che compete nelle gare regionali.

Questa è una Scuola, insomma, dove le regole diventano l’implicito quotidiano positivo e condizioni per divertirsi, per imparare e per stare meglio assieme.

Queste scuole garantiscono molto di più di avere un ruolo nella formazione di un senso di cittadinanza rispetto a una scuola che fa poco o per niente attività come queste.

Veniamo alle sfide delle società contemporanee. L’educazione digitale è diventata di grande attualità anche grazie all’esperienza scolastica della Didattica a Distanza che abbiamo vissuto in questo anno di emergenza sanitaria. Internet è stata senza dubbio una risorsa per la Scuola, ma vede dei pericoli in tema di povertà educativa?

A giugno 2020, con OpenPolis, abbiamo reso pubblico un rapporto sui divari nell’uso delle tecnologie, il digital divide.

Precedentemente avevamo notato, come tanti, che la pandemia, ed è vero in tutto il mondo, ha accentuato i divari in apprendimento, anche perché il digitale ha lavorato in supplenza della Scuola in presenza.

La Didattica a Distanza è stata l’unica modalità per mantenersi in relazione con la formazione e l’apprendimento scolastico durante il periodo di chiusura delle scuole.

Le scuole italiane secondo me hanno fatto egregiamente.

Ci sono stati in particolare due categorie di eroi, anzi di eroine: le mamme e le insegnanti, visto che oltre il 90% dei docenti sono donne.

Sono loro che hanno mantenuto in piedi l’idea che l’apprendimento esistesse, che la Scuola esistesse.

Dal punto di osservazione dei progetti finanziati da Con i Bambini, è importante notare che, ovunque erano attivi, sono stati raggiunti molti più bambini e ragazzi rispetto a dove non vi erano partenariati di Terzo Settore che affiancavano le scuole.

In generale naturalmente le sofferenze e i sacrifici sono stati ben maggiori laddove le condizioni erano più povere. Il Ministero è intervenuto fornendo i device e si è anche creata un’alleanza territoriale tra Scuola, Terzo Settore e enti locali per arrivare a raggiungere tutti gli studenti.

Ma siamo davanti a un fenomeno complesso. E purtroppo spesso non si è riusciti a raggiungere tutti i bambini e ragazzi.

Oltre alle case povere e senza device dobbiamo pensare ai genitori stranieri che non parlano italiano, con le enormi difficoltà a farsi comprendere e sono 850 mila i bambini e ragazzi di origine straniera.

Abbiamo poi 230 mila minori con disabilità, Bisogni Speciali e fragilità.

I device sono stati importanti, ma pensiamo anche a chi, pur non avendo problemi economici, vive in zone interne dove spesso non c’è rete e dove quindi si pone un altro tipo di problema per raggiungere gli studenti.

La Scuola in presenza rimane quindi la Scuola principale per tutte queste ragioni e per il ruolo insostituibile della circolarità nei processi di apprendimento tra i pari e della relazione educativa in prossimità.

La Didattica a Distanza è stata una grande occasione di innovazione didattica, dove hanno imparato moltissimo in primo luogo i docenti, con i ragazzi e i genitori.

La Didattica a Distanza può certamente continuare a integrare la didattica in presenza: può essere usata per imparare ad usare la rete in maniera critica o per imparare in maniera partecipata, allestendo la lezione fuori da scuola per poi riprenderla in classe, capovolgendo il rapporto tra lavoro a scuola e lavoro a casa per un certo numero di attività didattiche.

Ma per usarla in maniera egualitaria dobbiamo risolvere il problema della rete, della connettività e dei device e di chi aiuta quel bambino a entrare in partita.

L’educazione finanziaria è considerata una literacy essenziale per la mobilità sociale dei ragazzi. Le indagini internazionali ci dicono però che le competenze degli studenti italiani sui temi finanziari non solo sono insufficienti rispetto ai coetanei europei, ma sono un’altra espressione del divario tra Nord e Sud, visto che nei contesti arretrati questa competenza è più deficitaria. C’è un approccio che si sente di consigliare come strategia per supportare le scuole nell’educazione finanziaria?

Avrei bisogno anche io di approfondire questa materia, ma posso portare alcuni spunti che vengono dalla mia esperienza.

I ragazzini delle zone povere, per esperienza di vita, molto spesso capiscono di finanza anche più dei bambini protetti.

Sanno cos’è il risparmio, capiscono da quali elementi si compone un prezzo, comprendono concetti come ricavo e guadagno, intuiscono cosa sia una speculazione.

Tuttavia, questo non si traduce in competenza finanziaria che per essere tale ha bisogno di una formalizzazione. La conoscenza ha bisogno sì della pratica ma anche di teoria, categorie e lessico.

I ragazzi ne sanno tanto quindi, ma poi non sanno usare le proporzioni, come sappiamo anche dalle indagini INVALSI, ed è ovvio quindi che la competenza finanziaria risulti deficitaria anche se ci sarebbero delle precondizioni per implementarla.

Quello che osservo è che, nel campo dell’educazione finanziaria, le didattiche di docenti o gruppi di docenti che sono capaci di correlare questa competenza empirica dei ragazzi con la teoria hanno buon successo.

Rimanendo invece sull’astratto c’è il rischio di creare uno scollamento tra le competenze della vita dei ragazzi e le competenze codificate e questo impoverisce il quadro.

Per quanto mi riguarda, i miei alunni mi dicono che parlo potabile!

Vuol dire che mi faccio comprendere. Perché i bambini sono persone, ma soprattutto sono persone in crescita, vivono un’età incredibilmente evolutiva, più di qualunque adulto, e il nostro ruolo è accompagnarli nell’avventura educativa della scoperta.

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