Tutti possono diventare lettori

In Italia si legge poco. È quanto affermano i recenti dati ISTAT. Cosa può fare allora la scuola per favorire lo sviluppo della cultura della valutazione e migliorare le competenze nella lettura dei nostri ragazzi? Forse non c’è domanda più importante di questa per un insegnante di Italiano.

Tutti possono diventare lettori

La professoressa Sabina Minuto, docente di Italiano al corso per manutentori elettrici e meccanici dell’Istituto Professionale Industria e Artigianato Mazzini-Da Vinci di Savona, una risposta l’ha trovata. E l’ha sperimentata con ragazzi che molti suoi colleghi considerano forse impossibili.

INVALSIopen l’ha intervistata in occasione del suo intervento al Convegno Insegnare a Leggere – Imparare a Comprendere organizzato dall’INVALSI a Roma il 16 e 17 novembre 2018.

Professoressa Minuto, chi sono i suoi studenti impossibili?

Sono i ragazzi ai quali non crede nessuno, e per i quali questo istituto professionale è l’ultima spiaggia.

Nelle mie classi, accanto a studenti regolari, ci sono ragazzi già grandi, molti dei quali extracomunitari, spesso pluri ripetenti o comunque con fallimenti sistematici alle spalle, quindi fortemente demotivati.

Spesso i ragazzi non vengono a lezione anche per periodi lunghi e la prima battaglia è per tenerli a scuola.

Ho anche avuto una prima di 37 maschi! Ma io non cerco solo di metterli in condizioni di passare l’esame di maturità o di qualifica. Voglio fare di loro dei lettori per la vita. Credo che la lettura sia una forma di empowerment sociale imprescindibile.

Dove riesce a portarli?

Alla fine del percorso sono ragazzi in grado di sostenere una discussione intelligente e ragionata su un testo.

La loro autostima, che non avevano mai avuto prima, cresce, e assaporano l’idea di poter essere anche loro considerati studenti con la S maiuscola.

Gli insuccessi non mancano, figuriamoci, ma alcuni ragazzi sono arrivati già ora a leggere tre libri in un anno e a leggere anche fuori dall’orario scolastico, a casa, non per obbligo ma per scelta.

C’è chi si va a comprare un libro letto in classe ad alta voce, e magari è il primo libro che entra in casa. Qualcuno ha persino cominciato a scrivere poesie o racconti.

All’inizio com’è andata?

Ho cominciato con la biblioteca in un carrello della spesa che mi portavo da una classe all’altra. Ed è stato molto difficile.

I ragazzi non avevano mai letto, o avevano avuto brutte esperienze passate. Non facevano che dire che fatica, è noioso, non mi piace. Ci ho messo un po’ a creare la fiducia e la relazione necessarie per poter lavorare.

Abbiamo cominciato chiedendoci perché non siamo lettori, qual è il problema maggiore quando leggiamo, cosa provavamo se da piccoli ci leggevano ad alta voce delle favole.

A volte abbiamo cominciato dalla lettura del manuale del motorino. Ho iniziato prima solo con il laboratorio di lettura ad alta voce, poi ho introdotto quello di lettura individuale.

Io devo prendere l’alunno per quello che è, non per quello che io vorrei che fosse. Lavoro con i ragazzi al centro, seguendo i loro ritmi di apprendimento.

Come cerca di suscitare nei ragazzi la voglia di leggere?

La chiave è far loro toccare con mano che leggere non è solo decifrare delle lettere, ma capire che cosa quel libro gli può dare come persone.

Occorre che sentano come attraverso i sentimenti provati, leggendo, possono capire e dare un nome anche ai loro sentimenti.

La lettura è come un simulatore di volo, che aiuta a essere consapevoli anche di ciò che non abbiamo sperimentato, perché lo abbiamo visto simulato appunto nei libri. La classe diventa quindi un laboratorio.

L’idea è che non sia io a spiegare il testo, ma siano loro a impadronirsi dei suoi significati. Mi interessa il processo, più che il prodotto. In un certo senso, per loro sono più un’allenatrice che un’insegnante.

È un metodo che ha inventato lei?

No, mi sono ispirata a un modello americano preciso, quello di Nancie Atwell, che nel 2015 ha vinto il Global Teacher Prize, il Nobel della scuola. Si chiama Writing and Reading Workshop.

L’ho studiato sui testi originali in Inglese, e poi l’ho adattato e continuo ad adattarlo ai contesti in cui mi trovo a lavorare. Si tratta di un approccio concreto alle cose, che è molto anglosassone, ma in realtà non troppo lontano da quello di Rodari, Don Milani, De Mauro. Solo che da noi, in Italia, un tale modello non è mai stato sistematizzato.

Perché ha cominciato a interessarsene?

Perché mi accorgevo che facevo tanta fatica e non ottenevo niente. Non ero una docente incisiva.

Prima di arrivare in un istituto professionale, ho insegnato molti anni in una scuola media, in un contesto molto più facile, dove avevo anche grandi soddisfazioni. Ma le avevo solo dai ragazzi già bravi, già lettori. Il resto dei ragazzi restava com’era all’inizio.

E allora mi sono chiesta: ci sarà un modo per cambiare questa situazione? L’ho trovato sperimentando oramai da otto anni questo approccio pedagogico, che ribalta completamente la pratica didattica consueta.

Come si svolge una delle sue lezioni?

C’è una routine precisa. I primi cinque minuti sono dedicati alla lettura di una poesia. Questo è solo un regalo ai ragazzi, che non devono rispondere, non devono studiare. A volte invece in cinque minuti presento un libro scelto dalla biblioteca di classe.

Seguono dieci minuti di una mini-lezione nella quale spiego una strategia di comprensione, quella che io chiamo la lettura ravvicinata. A questo punto finalmente leggiamo ad alta voce, oppure i ragazzi leggono da soli, per venticinque minuti.

Spesso la lettura individuale è una vera sfida, perché non si comincia finché tutti non fanno silenzio, cioè fino a quando non sono davvero interessati, fino a quando il laboratorio non ha ragione di iniziare. I tempi però non sono mai uguali. Ogni volta ho adattato i tempi di lettura individuale in classe agli studenti che avevo davanti.

Seguono 5/10 minuti finali di condivisione: discutiamo tutti insieme, poi ognuno di loro può scrivere qualcosa, magari a partire da frasi o parole annotate sul taccuino del lettore, raccontando e argomentando le proprie impressioni. Più spesso nella lettura ad alta voce uso la pratica del thinking talking: esplicito i miei pensieri da lettrice sul testo in modo che i ragazzi modellino il loro pensiero sul mio.

Naturalmente li incoraggio a leggere anche a casa, per conto loro, ma non sempre ci riesco.

Che cosa leggono?

Oggi abbiamo una settantina di volumi nella biblioteca di classe, acquistati col bonus cultura.

Cerco di partire da libri che possano interessare i ragazzi, quindi anche da albi illustrati, graphic novel , riviste, fumetti. In genere ad alta voce invece leggiamo la narrativa per giovani adulti che oggi può contare anche in Italia scrittori talentuosi e importanti.

In biblioteca abbiamo anche titoli non fiction, espositivi, biografie di sportivi: insomma la parola fondamentale è scelta.

E la letteratura?

In classe ovviamente nel triennio leggiamo tutto quello che ci aiuta a discutere e a trovare un percorso di senso, e autori come Pirandello, Leopardi o Dante sono sempre fra le letture.

Ma la letteratura è un punto di arrivo più che di partenza, altrimenti può risultare del tutto staccata dalla vita quotidiana, quindi incomprensibile e lontana.

Ed è un’occasione sprecata perché è sempre il significato del testo negoziato con gli studenti che conta.

L’approccio storiografico viene dopo, perché senza l’interesse dei ragazzi che nasce da modelli non solo storiografici non si può leggere nulla.

Si diventa lettori per piacere, non per dovere, e questo vale per tutti i ragazzi, qualunque sia la famiglia di provenienza e la scuola frequentata.

Perché insegnare a leggere equivale a insegnare a pensare.

Come valuta il lavoro svolto dai ragazzi?

In generale la mia richiesta di valutazione non è pressante, quindi i ragazzi sono a loro agio quando leggono. Per me possono anche abbandonare o riprendere i libri iniziati, e non li valuto in base al numero dei libri letti.

Oltre alla valutazione sugli scritti, due volte al quadrimestre ritiro i quaderni – che fatica averli! – e valuto quello che c’è dentro.

Valuto però soprattutto il percorso fatto, lo stare dentro il percorso, non il prodotto finale: questo l’abbiamo prima discusso insieme, a inizio anno.

In altre parole, sono passata dal lavoro per il voto a quello per la soddisfazione, che però spesso stride molto con quello che fanno i miei colleghi.

Che cosa dicono i suoi colleghi?

Qualcuno si sta incuriosendo e viene a sentire cosa succede nelle mie classi, ma nessuno finora ha seguito il mio esempio, penso perché è molto faticoso, soprattutto all’inizio: occorre studiare e abbandonare le sicurezze della didattica tradizionale.

Anche dopo, comunque, resta un metodo impegnativo. Devi lavorare tanto a casa per preparare le strategie e i testi su cui applicarla o ricercarla, non ti puoi appoggiare ai libri di testo. Devi fare tu, non puoi far fare agli altri. E il lavoro è sempre diverso perché ogni volta i ragazzi sono diversi e sono diversa io.

Lo rifarebbe?

Assolutamente sì, perché anche le soddisfazioni sono grandi.

In terza, agli esami di qualifica, alla domanda del presidente di commissione, tutti i ragazzi della classe hanno detto che l’esperienza più bella dei tre anni è stata il laboratorio di lettura.

Una grande soddisfazione è stata quando è venuto in classe Gabriele Clima, l’autore de La stanza del lupo. I ragazzi hanno discusso con lui per due ore, continuando anche durante l’intervallo – quello dove si mangia la focaccia – perché non se ne erano neppure accorti.

Al contrario di tanti colleghi, mi diverto da matti, non soffro assolutamente di burnout da insegnante e voglio restare dove sono perché so che qui posso fare una piccola differenza.

Non ci sono studenti impossibili, ma solo strade diverse.


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Foto in alto di: Riccardo Venturi

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