Piccoli equivoci sulle competenze
Intervista alla Professoressa Anna Maria Ajello, Presidente dell’INVALSI

Il concetto di competenza è fra i più centrali per la scuola di oggi, ma anche fra i più discussi. Nei dibattiti pubblici come tra gli studiosi. Ed è al centro delle Prove INVALSI. 

Grafica che rappresenta le competenze

Non sempre però è compreso a fondo, ed è spesso visto come un problema, anziché come una grande opportunità per adeguare la scuola a un mondo che cambia in fretta, e restituire il gusto delle attività in classe tanto ai ragazzi quanto agli insegnanti stessi.

Ne parliamo con Anna Maria Ajello, dal 2014 Presidente dell’INVALSI e Professore ordinario all’Università Sapienza di Roma che ha approfondito questi temi.

Professoressa Ajello, esagera chi definisce l’ingresso nell’era digitale come una trasformazione epocale anche per la scuola?

Se un cambiamento è epocale, ce ne accorgiamo in genere solo dopo.

Ma è vero che oggi i cambiamenti sono così rapidi che non sappiamo in quale società vivranno i nostri figli, né di quali altre competenze avranno bisogno. Molte conoscenze di oggi diventeranno presto obsolete.

Come persone e come cittadini siamo tutti chiamati a pensare, scegliere, cambiare molto più spesso che in passato. Internet in particolare ha spiazzato la scuola, e si è dimostrato un concorrente particolarmente sleale perché offre informazioni in modo molto più pratico, immediato e accattivante.

Né gli insegnanti, né i libri sono più gli unici depositari del sapere. Risorse quasi infinite e sempre aggiornate per archiviare le informazioni sono letteralmente sempre a nostra disposizione.

Ora, è chiaro che la responsabilità di affrontare questo grande cambiamento non può ricadere solo sugli insegnanti. Numerosi studi ci dicono che il contesto influisce moltissimo sugli esiti di apprendimento degli studenti, e l’organizzazione stessa della scuola ha il suo peso.

Ma il modo di insegnare ha un ruolo importante. E secondo me questa per la scuola è una grande opportunità, direi quasi una liberazione, da un modo tradizionale di fare scuola che non soddisfa più nessuno.

I ragazzi devono poter imparare in modo diverso.

Che cosa vuol dire imparare in modo diverso?

Da tempo la scuola cerca di non accontentarsi più di un apprendimento fondato solo sulla memoria, né dell’insegnamento di procedure date una volta per tutte.

Memorizzare è importante, e in certi casi anche indispensabile, ma bisogna anche imparare a utilizzare e riutilizzare il sapere appreso.

Oggi che non porta più da sola la responsabilità della trasmissione delle conoscenze, la scuola può svolgere molto meglio che in passato un compito ancora più importante, che Internet ha reso più urgente ma che la Rete non può svolgere: insegnare a elaborare le informazioni, cioè a cercarle, valutarne l’attendibilità, archiviarle, fare confronti, ricercare analogie e differenze, usarle.

La scuola deve insegnare a risolvere problemi, a immaginare, a imparare cose nuove anche da soli. In termini psicologici, vuol dire che deve aiutare i ragazzi ad acquisire processi cognitivi più alti, che sono alla base delle competenze.

Se la scuola italiana – tutta la scuola – non si incammina con più decisione in questa direzione, rischia di perdere la funzione sociale che le è propria.

Molti si chiedono però che cosa sapranno così i ragazzi. Non si rischia di svilire l’importanza delle conoscenze?

Al contrario. Se apprendere vuol dire solo memorizzare delle informazioni, allora può bastare anche una infarinatura, quella della sufficienza con il sei.

Essere competenti vuol dire invece padroneggiare una conoscenza, cioè averla capita fino in fondo, saperla individuare nel proprio bagaglio e usare quando ce n’è bisogno, saperla adattare a circostanze diverse.

E sono gli altri che riconoscono la competenza di una persona, in un particolare ambito e in un determinato ambiente. Nessuno se la può attribuire da solo. La competenza è sempre intersoggettiva.

Ad esempio, sei riconosciuto come un cuoco competente non solo se sai eseguire la ricetta della Sachertorte alla perfezione, ma se la sai fare altrettanto buona anche al variare delle condizioni di contesto – per esempio aumentata umidità dell’aria, caratteristiche del forno differenti, e così via.

Ma una persona competente sa anche che cosa non si deve fare, vale a dire le azioni che evita intenzionalmente per rendere al meglio la sua prestazione.

Per continuare l’esempio della torta, il cuoco competente si asterrà intenzionalmente dal montare le chiare d’uovo oltre il necessario, perché sa che questo comprometterebbe la piena riuscita del dolce.

E alla fine, qualcun altro mangiando la torta dovrà riconoscere che è buona.

Ma è realistico pensare che uno studente si impadronisca così a fondo di tutto quello che deve essere insegnato a scuola?

Sapere le cose serve, ma non è più necessario saperle proprio tutte. Grazie a Internet, le informazioni di dettaglio sono sempre a portata di mano.

L’importante è avere le competenze fondamentali, che in ogni disciplina sono relativamente poche. Quelle devono essere acquisite per bene.

E quali sono i traguardi che i ragazzi devono raggiungere, anche per quanto riguarda le competenze, è stabilito dalle Indicazioni nazionali e dalle Linee guida del MIUR.

Più tradizionalmente, gli insegnanti tendono a voler trasmettere quanti più contenuti possibile con il rischio di trattare tutto a volo d’uccello senza garantire agli studenti una piena acquisizione.

Spesso è meglio fare una selezione all’interno dei contenuti e delle abilità che si vogliono trasmettere anche in base alle aspettative e alle caratteristiche degli studenti della propria classe.

I libri di testo sono, quindi, fonti alle quali attingere delle informazioni, non l’elenco delle cose che i ragazzi devono imparare.

Come si passa a insegnare per competenze?

Non si insegna per competenze, ma per far diventare competenti, che è tutta un’altra cosa.

Il solo fatto che si continui a usare un’espressione così fuorviante è un segno che il concetto di competenza fa ancora fatica a entrare nella pratica didattica.

Una competenza infatti non è qualcosa che si insegna, ma un modo di insegnare che permette agli studenti di diventare competenti.

Ci sono moltissimi modi per farlo, e sta a ogni insegnante capire qual è quello giusto nel proprio caso.

Tutti però hanno in comune un rovesciamento di prospettiva: più che trasmettere conoscenze allo studente, si tratta di consentirne la piena acquisizione.

Come? Proponendo attività che per lui/lei abbiano un significato, e che per essere portate a termine richiedano l’uso di quelle conoscenze.

Lavorare in tal modo in classe si traduce anche nell’acquisizione del gusto di imparare che è l’unica garanzia perché i ragazzi continuino a farlo anche a scuola finita.

Quanto conta la motivazione dei ragazzi?

Tantissimo, perché nell’apprendimento di una competenza c’è sempre un ruolo forte dell’intenzionalità. Il ragazzo studia perché ne ha voglia, ne ha voglia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché sa che ce la può fare.

È chiaro naturalmente che l’insegnante deve essere il primo a provare quel gusto, perché lo deve trasmettere attraverso il suo modo di insegnare.

Per questo è molto importante riuscire a mantenere la fiducia dei ragazzi nelle proprie possibilità, senza minarla, dicendo magari non sei portato per la matematica, magari lo sei per qualcos’altro.

Così si crea l’alibi dell’attitudine, e allora quello studente in matematica non diventerà mai competente, perché non si diventa competenti in un ambito in cui si sa di non potercela fare.

Bello. Perché allora siamo ancora indietro?

Non tutti sono indietro. Io visito molte scuole e vedo anche esperienze bellissime, però non c’è dubbio che tante scuole fatichino ad allontanarsi da una didattica tradizionale.

Eppure è da tempo che lo sviluppo delle competenze è un obiettivo della nostra scuola.

Le Indicazioni nazionali e le Linee guida del MIUR lo dicono da quasi vent’anni, ma dal punto di vista scientifico – anche se non le chiamavamo ancora così – le competenze sono al centro della riflessione già dagli anni Settanta, da quando la rivoluzione cognitiva ha cambiato quello che sapevamo sul modo in cui gli esseri umani utilizzano le informazioni.

E tornando ancora più indietro, ci accorgiamo che l’attenzione al modo in cui i ragazzi imparano, al lavoro a scuola basato sulle esperienze, l’aggancio con la realtà, la pedagogia attiva, sono temi già proposti da Maria Montessori all’inizio del Novecento, e prima ancora da John Dewey a cavallo dei due secoli – ‘800 e‘900.

Oggi, nella sovrabbondanza di informazioni che caratterizza la nostra società, è più che mai necessario che gli studenti acquisiscano un atteggiamento attivo di fronte alla mole di conoscenze da cui sono travolti, che consenta loro di sviluppare una mentalità critica e consapevole.

Tutto questo vuol dire nuovo carico di lavoro per gli insegnanti?

No, credo anzi che sviluppare le competenze sia un passo avanti anche per loro.

Perché ci possano prendere gusto i ragazzi, ci deve prima prendere gusto – cioè coinvolgimento, passione, soddisfazione – l’insegnante, anzi, gli insegnanti.

Ripensare alle competenze, infatti, significa anche aprire o riaprire un dialogo professionale fra docenti, perché il gruppo di insegnanti di una classe deve poter condividere lo stesso progetto formativo.

E dove prevale il gusto per ciò che si fa, si avverte meno la fatica.

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